168 LAVORATORI UCCISI PER TUMORE ALLA VESCICA E UN INTERO TERRITORIO DEVASTATO: LA STORIA DELL’IPCA DI CIRIÉ, LA FABBRICA DEL CANCRO
Era il 1972 quando Albino Stella e Benito Franza, operai dell’IPCA di Cirié, denunciarono l’azienda. Erano ammalati di tumore alla vescica, e già avevano visto tanti altri compagni trovarsi nella loro medesima condizione. Ma era la prima volta che qualcuno trovava la forza e il coraggio di portare in tribunale una fabbrica che aveva avvelenato un territorio intero e fatto ammalare e morire tanti lavoratori.
IPCA, l’acronimo di Industria Piemontese Coloranti dell’Anilina, era una fabbrica situata a Cirié, nelle valli canavesane, non molti distante da Torino. Fin dalla sua fondazione nel 1922, realizzata dai fratelli Sereno e Alfredo Ghisotti, l’azienda scaricava le acque residue di lavorazione nel fiume Stura. Si trattava di scarichi tossici, che uccidevano la fauna del corso d’acqua e al tempo stesso erano un serio pericolo per chiunque vi venisse a contatto. Già molti erano deceduti quando nel 1955 venne diagnosticato in maniera ufficiale il primo carcinoma alla vescica ad un operaio dell’IPCA. Ma il muro di silenzi, omertà e paura era ancora lontano dall’essere abbattuto. Ci provò la locale Camera del Lavoro, chiedendo all’Unione industriali chimici una commissione sulle lavorazioni nocive, la cui risposta, un netto rifiuto, conteneva anche chiare minacce verso i lavoratori. Lavoratori che come raccontava una memoria sindacale di quegli anni “vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro visi si posa una pasta multicolore vischiosa, con odori nauseabondi. A lungo andare la stessa epidermide assume disgustose colorazioni e si aggiungono irritazioni alla stessa. Gli infortuni sono a portata di mano ed alcuni sono stati mortali.”
Insomma l’IPCA era una fabbrica della morte e la direzione lo sapeva bene. Ma l’unica cosa che era disposta a fare era pagare un’indennità agli operai per l’acquisto di un bicchiere di latte. Cura ridicola per chi maneggiava prodotti altamente tossici, ma che veniva regolarmente prescritta dal medico aziendale ai cosiddetti “pisciasangue”, gli operai con le vesciche infiammate.
Quando finalmente nel 1972 partì il processo, i proprietari si difesero dicendo “non possiamo dire che l’acqua dei nostri scarichi sia la più indicata per farci il bagno; d’altra parte nessuna industria elimina acqua distillata”. Alla fine di un lungo iter processuale la proprietà, due dirigenti e il medico della fabbrica furono condannati per omicidio colposo. La fabbrica chiuse definitivamente nel 1982, l’INAIL stabilì poi che 168 lavoratori erano morti all’IPCA per cancro alla vescica.
Restano le parole di una delle vedove, pronunciate dopo l’ultima sentenza: “la vita vale più delle esigenze di produzione”.
Era il 1972 quando Albino Stella e Benito Franza, operai dell’IPCA di Cirié, denunciarono l’azienda. Erano ammalati di tumore alla vescica, e già avevano visto tanti altri compagni trovarsi nella loro medesima condizione. Ma era la prima volta che qualcuno trovava la forza e il coraggio di portare in tribunale una fabbrica che aveva avvelenato un territorio intero e fatto ammalare e morire tanti lavoratori.
IPCA, l’acronimo di Industria Piemontese Coloranti dell’Anilina, era una fabbrica situata a Cirié, nelle valli canavesane, non molti distante da Torino. Fin dalla sua fondazione nel 1922, realizzata dai fratelli Sereno e Alfredo Ghisotti, l’azienda scaricava le acque residue di lavorazione nel fiume Stura. Si trattava di scarichi tossici, che uccidevano la fauna del corso d’acqua e al tempo stesso erano un serio pericolo per chiunque vi venisse a contatto. Già molti erano deceduti quando nel 1955 venne diagnosticato in maniera ufficiale il primo carcinoma alla vescica ad un operaio dell’IPCA. Ma il muro di silenzi, omertà e paura era ancora lontano dall’essere abbattuto. Ci provò la locale Camera del Lavoro, chiedendo all’Unione industriali chimici una commissione sulle lavorazioni nocive, la cui risposta, un netto rifiuto, conteneva anche chiare minacce verso i lavoratori. Lavoratori che come raccontava una memoria sindacale di quegli anni “vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro visi si posa una pasta multicolore vischiosa, con odori nauseabondi. A lungo andare la stessa epidermide assume disgustose colorazioni e si aggiungono irritazioni alla stessa. Gli infortuni sono a portata di mano ed alcuni sono stati mortali.”
Insomma l’IPCA era una fabbrica della morte e la direzione lo sapeva bene. Ma l’unica cosa che era disposta a fare era pagare un’indennità agli operai per l’acquisto di un bicchiere di latte. Cura ridicola per chi maneggiava prodotti altamente tossici, ma che veniva regolarmente prescritta dal medico aziendale ai cosiddetti “pisciasangue”, gli operai con le vesciche infiammate.
Quando finalmente nel 1972 partì il processo, i proprietari si difesero dicendo “non possiamo dire che l’acqua dei nostri scarichi sia la più indicata per farci il bagno; d’altra parte nessuna industria elimina acqua distillata”. Alla fine di un lungo iter processuale la proprietà, due dirigenti e il medico della fabbrica furono condannati per omicidio colposo. La fabbrica chiuse definitivamente nel 1982, l’INAIL stabilì poi che 168 lavoratori erano morti all’IPCA per cancro alla vescica.
Restano le parole di una delle vedove, pronunciate dopo l’ultima sentenza: “la vita vale più delle esigenze di produzione”.