Cannibali e Re


Channel's geo and language: not specified, not specified
Category: not specified


Cannibali e Re è un progetto narrativo di rinnovamento della narrazione storica. Raccontiamo la storia degli ultimi.
📚Shop: http://bit.ly/2Pcd06L
👍Facebook: http://bit.ly/32Dsncw
📷Instagram: http://bit.ly/35WGwnb
Email: cronacheribelli@gmail.com

Related channels  |  Similar channels

Channel's geo and language
not specified, not specified
Category
not specified
Statistics
Posts filter


I BAMBINI DI CEAUŞESCU: LE CONSEGUENZE DISASTROSE DELLA POLITICA DEMOGRAFICA DEL CONDUCĂTOR

L’Unione Sovietica fu, nel 1920, il primo paese al mondo a rendere legale l’aborto.
Dopo la Seconda guerra mondiale praticamente tutti i paesi del patto di Varsavia vararono legislazioni assai avanzate in tema di emancipazione femminile e diritto all’interruzione di gravidanza, con uno, due o addirittura tre decenni di vantaggio rispetto ai paesi dell’Europa Occidentale.
La Romania inizialmente non fece distinzione. Nel 1965, però, quando al potere salì Nicolae Ceaușescu, vi fu un drastico cambio di rotta gravido di nefaste conseguenze.
Secondo il segretario del Partito Comunista Romeno, il tasso di natalità del suo paese era eccessivamente basso ed occorreva ad ogni costo aumentarlo nel giro di pochi anni. In realtà, sebbene effettivamente la Romania avesse un incremento della popolazione inferiore a molti paesi europei, era solo la conseguenza dell’emancipazione che la legislazione socialista aveva portato nel paese.
Meno matrimoni, più divorzi, aumento degli aborti. Tutto ciò aveva ridotto le nascite.
Ceaușescu, convinto che la Romania avrebbe dovuto passare in un decennio da 20 a 25 milioni di abitanti, rese quasi impossibile praticare legalmente l’aborto. I rari casi in cui era ammesso (stupri, malattie del feto, grave pericolo per le madri) furono monitorati con controlli strettissimi, tanto che diversi appartenenti alla Securitate vennero infiltrati nelle strutture ospedaliere. Le donne furono sottoposte a visite obbligatorie per la fertilità mentre l’importazione di contraccettivi era bloccata.
Nonostante l’irrigidimento costante della legislazione, durante i 25 anni di governo targato Ceaușescu i tassi di natalità rimasero bassi mentre le conseguenze sul piano sociale furono devastanti.
La piaga degli aborti clandestini riaffiorò in tutta la sua drammaticità. Tra il 1966 e il 1989 migliaia di donne morirono per complicazioni legate a questa pratica. Quelle che sopravvivevano o che sceglievano di continuare le gravidanze indesiderate pagavano con disturbi nervosi, problemi sessuali e depressione il prezzo della politica scellerata del regime.
Nel frattempo il peggioramento delle condizioni economiche del paese portava le famiglie meno agiate, che non potevano accedere ai contraccettivi di contrabbando e non volevano o potevano praticare l’aborto, ad abbandonare i propri figli. Nel 1990, tra i 100000 e i 150000 piccoli vivevano nelle “case dei bambini”, istituti con personale sempre meno numeroso e qualificato, in cui non erano rari i casi di abusi fisici e psicologici. Con il crollo del regime diversi minori vennero dati in adozione, con pratiche non sempre trasparenti, mentre tanti altri finirono a vivere per strada, soprattutto nel sottosuolo di Bucarest. Questi bambini abbandonati diventarono i tristi protagonisti di squallidi traffici di minori.
Una catastrofe tuttora non risolta.

#romania #ceausescu






MANICOMIO OCCUPATO! QUANDO A PARMA PAZIENTI E STUDENTI SI RIBELLARONO ALL'ISTITUZIONE MANICOMIALE

Le pratiche di internamento dei pazienti e i metodi di “cura” e di gestione delle persone ospitate o prigioniere della struttura non facevano di quello di Colorno un manicomio straordinario; anche a pochi chilometri da Parma l’istituzione manicomiale italiana portava avanti un lavoro repressivo, lontano anni luce dalle esigenze dei pazienti, come da quelle, soprattutto lavorative, del personale medico e infermieristico. Quello che fa del manicomio di Colorno un’esperienza straordinaria sono appena 35 giorni, nei suoi 120 anni di storia.
Era la fine degli anni ‘60, e nel dibattito sulla psichiatria si iniziavano a sentire voci come quella di Franco Basaglia; nelle piazze invece risuonavano quelle degli studenti e degli operai. E nella infinita lista delle categorie subalterne possiamo senza nessun dubbio annoverare i pazienti, o detenuti, psichiatrici di quegli anni. Le notizie sui maltrattamenti e sulla cattiva gestione del manicomio di Colorno ebbero una eco importante grazie alle proteste di alcuni studenti, che avevano incontrato Mario Tommasini, assessore provinciale alla sanità che aveva visitato la struttura già nel 1965, tentando di avviare un lavoro di piccoli miglioramenti gestionali, incontrando le resistenze della direzione del manicomio. Dopo manifestazioni, anche da parte di alcuni infermieri, nel febbraio del 1969 studenti e pazienti occuparono la struttura, intraprendendo una esperienza di autogestione, in cui ai pazienti erano aperte le porte dell’organizzazione quotidiana, oltre che quelle fisiche del manicomio stesso, ottenendo il permesso di uscire dalla struttura.
Gli infermieri più legati alla vecchia e tradizionale gestione del manicomio, che si opponevano soprattutto alla richiesta dei pazienti di essere inclusi ufficialmente nella gestione della struttura, come alcuni gruppi neo-fascisti, tentarono delle contro occupazioni, che determinarono la fine dell’esperimento di Colorno. Alla fine dei 35 giorni, l’esperienza di rinnovamento proposta dal manicomio di Colorno non era comunque finita: Tommasini si mise in contatto con lo stesso Basaglia, che per un breve periodo diresse la struttura, prima di altre nuove gestioni che continuarono sulla falsariga dei 35 giorni.
E chissà che proprio quei 35 giorni nel 1969 non siano stati determinanti, sulla strada che portò, nove anni dopo, alla promulgazione della legge 180.

#antipsichiatria


Grazie a Antonio Celi per il post.

Le fonti e il materiale divulgativo utilizzati per la redazione di questo testo, da cui sono tratti anche i virgolettati e le citazioni, sono i seguenti:

- https://briganteggiando.it/2019/10/04/settantanni-dopo-melissa/
- http://www.centrosocialesaliano.it/melissa.htm
- http://www.labottegadelbarbieri.org/1949-in-calabria-si-occupa-e-si-muore/

- Arlacchi, P., "Mafia contadini e latifondo nella Calabria tradizionale", Bologna, Il mulino 1980.
- Furci, M., Melissa a sessant'anni dall'eccidio, Vibo Valentia, Adhoc edizioni, 2009.
- Mercurio Amoruso M. S., "Inchiesta economica su Melissa", in “Quaderni di geografia umana per la Sicilia e la Calabria” (III, 1958, pg. 61).

La foto ritrae braccianti sulle terre occupate a Melissa nel 1950 ed è stata scattata dal pittore Ernesto Treccani.


"AH LAVORARE! SE VOGLIONO LA TERRA LA DEVONO PAGARE COL SANGUE!" L'ASSASSINIO DI MATTEO ACETO E L'OCCUPAZIONE DEL LATIFONDO CALABRESE

Questa storia inizia al buio in un giorno d'autunno, la bruma avvolge le colline e attutisce la risacca del mar Jonio che le circonda d'intorno. E' il 28 ottobre del 1943, è ancora notte e un contadino sella il suo asino per andare a lavoro; si chiama Matteo Aceto ed è un militante del sindacato. Da giorni i braccianti del crotonese occupano le terre di conti e marchesi, e Matteo è uno dei leader più carismatici del movimento.
Verzino, Capo Rizzuto, Cirò Marina, San Mauro Marchestao: c'è Matteo che guida i braccianti durante le occupazioni, sue sono le proposte più costruttive. La sua presenza è fondamentale e lui lo sa, ogni giorno si alza alle tre e si avvia ai campi che non è ancora l'alba. Ma quel mattino a lavoro non ci andrà mai: un sicario lo ferma sulla porta della sua stalla assissandolo con cinque coltellate.

L'autore del vile omicidio rimase ignoto. Ma il contesto in cui esso maturò e gli interessi cui fu funzionale erano e restano invece chiarissimi, e vale la pena raccontarli.

Il Marchesato infatti non è una terra qualunque: nel dopoguerra è l'area di maggiore concentrazione fondiaria di tutta Italia. L'80% delle terre coltivabili costituisce appena l'1,3% delle proprietà, e qui hanno sede le 5 più grandi tenute agrarie del paese. .

Terre possedute da secoli a titolo baronale, alcune; in larga parte, terre comuni usurpate nel tempo con la violenza degli sgherri e la connivenza delle autorità. I baroni vivono lontani - Napoli, Roma, Caserta - del tutto estranei a quel piccolo cosmo feudale:




LA STORIA DI OTA BENGA, IL "PIGMEO" ESPOSTO TRA LE SCIMMIE NELLO ZOO DI NEW YORK

Secondo le teorie razziali in voga alla fine dell’Ottocento i “pigmei”, nome con cui furono indicate diverse popolazioni indigene dell’Africa Equatoriale, erano “l’anello di congiunzione tra gli uomini e le scimmie”.
La bassa statura, i capelli crespi, il naso schiacciato, tratti somatici delle tribù Twa, Aka, Baka, Bambuti e Mbuti ( “sottogruppi” delle etnie agglomerate col termine pigmeo), furono sufficienti agli occhi dei colonizzatori per classificarli come subumani a cui riservare un trattamento a dir poco abominevole.
E proprio tra i colonizzatori va annoverato l’antagonista di questa nostra storia. Samuel P. Verner, presbitero originario del South Carolina che nel 1885, arrivò in Africa per esplorare, convertire ed arricchirsi. Dopo alcuni anni di osservazione dei “pigmei”, nel corso dei quali si appropriò di manufatti indigeni che rivendeva negli USA, si accordò con l’antropologo John McNee, per portarne 12 in America da esporre negli zoo umani di recente invenzione.
Fu così che tra gli altri Verner acquistò per una libbra di sale e un pezzo di stoffa Ota Benga, reso schiavo dalla milizia coloniale belga che aveva trucidato la sua famiglia.
In cambio dei “pigmei” il missionario ricevette cento dollari sonanti.
Ota Benga e gli altri vennero esposti per la prima volta a St. Louis dove furono oggetto di derisione da parte del pubblico e divennero protagonisti di ridicoli test scientifici che ne decretarono il presunto ritardo mentale. In seguito, anche a causa degli atti di insubordinazione del gruppo, vennero tutti rispediti in Africa.
Ota Benga però fu riportato presto da Verner negli Stati Uniti e ceduto allo zoo del Bronx di New York, dove venne collocato nella gabbia delle scimmie. Il 9 settembre 1906 il New York Times dedicò a questo “boscimano dai denti affilati” un articolo che portò ben 40000 persone a vedere quel ragazzo che condivideva la stessa casa di Dohong, celebre orango.
In quella condizione di prigionia forzata Ota Benga e Dohong sembravano trovare un po’ di serenità l’uno nell’altro: giocavano, si abbracciavano, forse si consolavano a vicenda. Nei mesi seguenti, mentre l’attenzione del pubblico scemava e la Chiesa Battista americana protestava contro il trattamento riservato al “pigmeo”, vi furono una serie di atti di insubordinazione di Ota Benga che portarono la direzione dello zoo a disfarsi di lui.
Affidato al reverendo Gordon fu “civilizzato suo malgrado”. Si trasferì nel seminario di Lynchburg, ricevette un’educazione religiosa, degli abiti occidentali, una protesi per i denti, e perfino un lavoro.
Ma tutto questo era solo una forzatura. Tormentato dal sogno irrealizzabile di tornare in Africa, depresso per la condizione in cui viveva il 20 marzo 1916 accese un falò, si denudò e comincio a ballare come fosse tra la sua gente. All’alba si sparò un colpo al cuore.
Finalmente era libero.

#razzismo #colonialismo




Agende e calendari sono ancora disponibili, sia col tesseramento che singolarmente. Li trovate sulla nostra pagina Blomming: https://www.blomming.com/it/cannibaliere/items


Qualcuno ci ha chiesto di scrivere della recente dipartita di Giampaolo Pansa. In passato specificato come i suoi libri, dal Sangue dei Vinti in poi, siano state opere prive di qualsiasi valore storiografico e divulgativo. Testi romanzati in cui fantasia e realtà si mescolavano in parti disomogenee ed emergeva limpidamente la volontà di costruire un immaginario che dequalificasse la Resistenza, i suoi uomini e le sue donne.
Libri come quelli di Pansa non sono figli del caso ma di una precisa fase politica e culturale. Come abbiamo sempre sottolineato le produzioni letterarie e perfino saggistiche non sono mai neutre. Il presunto superpartismo dello Storico è un assioma che non regge proprio alla ricerca storica. Il rigore metodologico, la capacità di ricerca, la limpidezza delle fonti e l’onestà intellettuale sono strumenti per valutare il valore di uno storico. E non di certo la presupposta capacità di non schierarsi.
Perché da questo presunto superpartisimo nasce l’obbrobrio a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Un obbrobrio istituzionale, perché proprio dalle istituzioni è partito il fenomeno di cui Pansa è diventato l’alfiere letterario. Lo sdoganamento politico del fascismo che ha toccato il suo apice negli anni ‘90, con il discorso di Luciano Violante appena insediatosi da presidente della Camera, purtroppo affonda le sue radici nella storia Repubblicana fin dai tempi dell’Amnistia.
Non ci sarebbe mai stato un Sangue dei Vinti se fin dal ‘45 criminali di guerra fascisti ( e quanti ne abbiamo citati in questa pagina) non fossero stati rimessi in libertà senza colpo ferire, senza che la Repubblica desse la possibilità al neofascismo di riorganizzarsi, senza Tambroni, senza la propaganda degli “opposti estremismi”, senza le coperture e il sostegno dello Stato ad un vasto e variegato mondo Nero.
Insomma, Pansa è stato soltanto la conseguenza di un fenomeno molto più ampio. Il tentativo politico di mantenere viva l’eredità del fascismo, ma non da parte dei fascisti stessi, bensì da parte di chi ha visto nel ‘22 e vedrebbe ancora oggi nella deriva autoritaria dello Stato una possibile e auspicata risposta alle lotte delle classi subalterne per il cambiamento sociale.
In questo quadro va visto il lavoro di Pansa, e il lavoro di tutti coloro che hanno cercato di mettere sullo stesso piano chi combatteva nella fila di un regime criminale e chi quel regime voleva abbatterlo, usando la retorica della “memoria condivisa”.
Per noi non esiste la memoria condivisa. E della storia ci interessa la nostra storia, quella degli oppressi, degli sfruttati, degli ultimi. Perché siamo convinti che possa essere uno strumento di di emancipazione collettiva, di lotta verso le strutture di potere di una società inadeguata a garantirci una vita dignitosa e felice. Per questo pensiamo che chi cerchi di sciogliere la memoria degli oppressi in quella degli oppressori, voglia semplicemente cancellarla la nostra storia.




L'UOMO, L’ANIMALE PIÙ PERICOLOSO DELLA TERRA?
99 ANNI FA NASCEVA MURRAY BOOKCHIN

“Non dimenticherò tanto facilmente la mostra “ambientalista” organizzata negli anni ’70 dal Museo di Storia Naturale, con una lunga serie di scenografie che mostravano al pubblico esempi di inquinamento e distruzione ecologica. L’ultima di esse, quella che concludeva la mostra, portava l’incredibile titolo “L’animale più pericoloso della Terra”, e consisteva unicamente di un grande specchio che rifletteva l’immagine del visitatore che si fosse trovato a sostare di fronte ad esso.
Ho ancora in mente l’immagine di un bambinetto nero che guardava lo specchio, mentre il suo maestro bianco cercava di spiegargli il messaggio che l’arrogante scenografia tentava di comunicare. Non c’erano scenografie rappresentanti gli staff dirigenziali delle industrie che decidono di disboscare montagne intere o funzionari governativi che agiscono in collusione con essi. Il messaggio della rappresentazione era uno solo, fondamentalmente antiumano: sono gli individui come tali, non la società rapace e coloro che ne beneficiano, ad essere responsabili degli squilibri ecologici, i ceti poveri tanto quelli ricchi, la gente di colore non meno dei bianchi privilegiati, le donne non meno degli uomini, gli oppressi non meno degli oppressori. Una mitica “specie umana” rimpiazza così le classi, gli individui rimpiazzano le gerarchie, i gusti personali (modellati dai media) rimpiazzano i rapporti sociali, e i diseredati che vivono magre ed isolate esistenze rimpiazzano le multinazionali, le burocrazie aggressive e le manifestazioni violente dello Stato”.

Murray Bookchin è stato uno dei pensatori più importanti del ‘900.
Saggista e scrittore, pioniere del movimento ecologista, è stato tra i primi a mettere in correlazione la questione ambientale e le strutture di potere economico e sociale che controllano la nostra esistenza.
Nato a New York, da immigrati di origine russa, fu imbevuto dalla nonna materna di idee rivoluzionarie. Militante anarchico, antirazzista e antifascista, nel corso del tempo elaborò una critica articolata tanto del pensiero capitalista che di quello marxista.
Noto per essere il fondatore del “municipalismo libertario”, la teoria secondo cui lo scardinamento di una società gerarchica passa attraverso la gestione collettiva delle comunità, sosteneva la necessità di creare una democrazia diretta dal basso che andasse a sostituire le istituzioni burocratiche e governative.
Lungimirante anticipatore, dedicò grande spazio nei suoi scritti alla critica del consumismo, dello stacanovismo, della cultura dell’esasperazione produttiva, dell’ambientalismo privo di connotazioni politiche e sociali, dell’egoismo come motore immobile del nostro tempo.
Dalla fine degli anni ‘70 Bookchin divenne l’ispiratore di interi movimenti ecologisti, pacifisti, libertari e con le sue opere arrivarono ad influenzare attivisti in tutto il mondo.




“Non voglio fare come tanti che se ne restano a bruciare senza fiamma, di una combustione incompleta.
Anche se solo per un secondo… voglio bruciare con una fiamma rossa e accecante!
E poi… quello che resta è solo cenere bianchissima… nessun residuo… solo cenere bianca”

Rocky Joe è un manga pubblicato dal 1968 al 1973, scritto da Asao Takamori (meglio noto come Ikki Kajiwara, tra l’altro autore dell’Uomo Tigre) e disegnato da Tetsuya Chiba. In seguito dal fumetto sarà tratto un anime, trasmesso in Italia a partire dal 1982, prima su Rete4 e poi su reti minori.

L’ambientazione è quella del Giappone negli anni del dopoguerra. Un paese in crescita ma pieno di contraddizioni. Nei quartieri popolari, tra le baracche e i poveri, comincia la storia di Joe Yabuki, un ragazzo ribelle e testardo che ha conosciuto solo gli orfanotrofi come casa e la marginalità sociale come condizione di vita.
Un giovane difficile che lungo la sua strada incontra Danpei Tange, vecchio pugile alcolizzato, che si convince delle potenzialità di Joe e vuole a tutti i costi diventare suo allenatore e mentore. Quando dopo alterne vicende i due sembrano incontrarsi, il ragazzo tradisce le promesse fatte al vecchio e a capo di una gang di ragazzini ordisce una truffa, che lo porta diritto al riformatorio. Qui una serie di vicissitudini, tra cui l’incontro con il campione Tooru Rikishi, portano Joe a riflettere sulla sua condizione e a comprendere che la scelta del ring può condurlo verso l’emancipazione individuale e sociale. Attraverso le lezioni a distanza impartite da Danpei, per il quale Joe ormai è un figlio, il ragazzo diventerà un abile boxeur capace di affrontare e battere gli avversari più temibili.
Sicuramente il manga si caratterizza per la presenza di alcuni valori tipici della società giapponese, su tutti l’estremo sacrificio che porta non solo Joe, ma anche altri personaggi, a dare tutto per realizzare i propri obiettivi in campo sportivo. D’altro canto, però, sono evidenti anche gli aspetti conflittuali rispetto ad alcuni principi etici di cui è imbevuta la cultura nipponica. In particolare il rifiuto dell’autorità, il ribellismo, lo scontro con le istituzioni, il desiderio di rivalsa sociale che animano Joe rappresentano chiari segni di rottura rispetto alla tradizione.
Tanto che il manga diventerà un simbolo per i giovani che daranno vita al Sessantotto giapponese.

#manga #anime #rockyjoe






168 LAVORATORI UCCISI PER TUMORE ALLA VESCICA E UN INTERO TERRITORIO DEVASTATO: LA STORIA DELL’IPCA DI CIRIÉ, LA FABBRICA DEL CANCRO

Era il 1972 quando Albino Stella e Benito Franza, operai dell’IPCA di Cirié, denunciarono l’azienda. Erano ammalati di tumore alla vescica, e già avevano visto tanti altri compagni trovarsi nella loro medesima condizione. Ma era la prima volta che qualcuno trovava la forza e il coraggio di portare in tribunale una fabbrica che aveva avvelenato un territorio intero e fatto ammalare e morire tanti lavoratori.
IPCA, l’acronimo di Industria Piemontese Coloranti dell’Anilina, era una fabbrica situata a Cirié, nelle valli canavesane, non molti distante da Torino. Fin dalla sua fondazione nel 1922, realizzata dai fratelli Sereno e Alfredo Ghisotti, l’azienda scaricava le acque residue di lavorazione nel fiume Stura. Si trattava di scarichi tossici, che uccidevano la fauna del corso d’acqua e al tempo stesso erano un serio pericolo per chiunque vi venisse a contatto. Già molti erano deceduti quando nel 1955 venne diagnosticato in maniera ufficiale il primo carcinoma alla vescica ad un operaio dell’IPCA. Ma il muro di silenzi, omertà e paura era ancora lontano dall’essere abbattuto. Ci provò la locale Camera del Lavoro, chiedendo all’Unione industriali chimici una commissione sulle lavorazioni nocive, la cui risposta, un netto rifiuto, conteneva anche chiare minacce verso i lavoratori. Lavoratori che come raccontava una memoria sindacale di quegli anni “vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro visi si posa una pasta multicolore vischiosa, con odori nauseabondi. A lungo andare la stessa epidermide assume disgustose colorazioni e si aggiungono irritazioni alla stessa. Gli infortuni sono a portata di mano ed alcuni sono stati mortali.”
Insomma l’IPCA era una fabbrica della morte e la direzione lo sapeva bene. Ma l’unica cosa che era disposta a fare era pagare un’indennità agli operai per l’acquisto di un bicchiere di latte. Cura ridicola per chi maneggiava prodotti altamente tossici, ma che veniva regolarmente prescritta dal medico aziendale ai cosiddetti “pisciasangue”, gli operai con le vesciche infiammate.
Quando finalmente nel 1972 partì il processo, i proprietari si difesero dicendo “non possiamo dire che l’acqua dei nostri scarichi sia la più indicata per farci il bagno; d’altra parte nessuna industria elimina acqua distillata”. Alla fine di un lungo iter processuale la proprietà, due dirigenti e il medico della fabbrica furono condannati per omicidio colposo. La fabbrica chiuse definitivamente nel 1982, l’INAIL stabilì poi che 168 lavoratori erano morti all’IPCA per cancro alla vescica.
Restano le parole di una delle vedove, pronunciate dopo l’ultima sentenza: “la vita vale più delle esigenze di produzione”.


L’ULTIMA LETTERA DI MARIANNE PRAEGER - JOACHIM, NATA IL 5 NOVEMBRE DEL 1921, MILITANTE TEDESCA ANTINAZISTA DECAPITATA A 22 ANNI PER AVER DATO FUOCO A UNA MOSTRA DI PROPAGANDA: UN GESTO CHE FECE SCALPORE IN TUTTO IL MONDO

“Cari suoceri,
State purtroppo per perdere un altro figlio, sebbene in questo caso solo acquisito. Mi spiace solo che non creda nell’Aldilà, altrimenti sarei già contenta di potermi riunire col mio - e il vostro - Heini. Ma comunque non sarà per me difficile, solo mi dispiace per mia mamma e mio papà! Siategli accanto in questi tempi difficili: io ho provato sempre a dar loro speranza, sebbene io non ne avessi [...] Mando le mie cose al vostro indirizzo, mamma, perché non so quanto i miei genitori possano rimanere a casa. Vi mando i miei ultimi saluti, cara madre, caro papà Alfons, Rudi, Nanni, Stupsi, le piccole Gertchen e Werner, e vi mando ogni possibile augurio. Soprattutto a Erich: nei miei pensieri gli stringo forte forte la mano. E anche agli altri parenti, i Reetz, Neumann, Arndt.
Non lasciate i miei genitori da soli! Aiutateli per quanto possibile! E a voi, grazie per tutto l’amore e i bei momenti trascorsi. Vi abbraccio tutti fortissimo,

la vostra Marianne.”

Queste furono le ultime parole scritte da Marianne Joachim, 22 anni neanche compiuti. Le scrisse poco prima di andare al patibolo, il 4 marzo del 1943. Sarebbe stata decapitata in quanto traditrice, in quanto sovversiva socialista, e in quanto ebrea. Marianne era nata il 5 novembre del 1921 da una famiglia ebrea, lavoratori nel campo dell’edilizia a Berlino. Negli anni ‘30 si avvicina alle idee socialiste mentre la Germania vira pericolosamente verso il nazismo. Lavorò come maestra fino al 1940 quando il regime le impose, in quanto ebrea, di lasciare il suo posto per iniziare a lavorare in un’officina la cui manodopera era composta interamente da ebrei. È qui che conosce Heinz Joachim. Lui è ebreo solo da parte paterna - la madre è cristiana - e a sua volta socialista. Si sposano e in breve tempo entrano a far parte della rete locale di resistenza coordinata da Herbert Baum. La loro azione più clamorosa avvenne il 18 maggio del 1942 quando riuscirono ad appiccare il fuoco ad una mostra organizzata dalla propaganda nazista contro l’URSS. I danni furono limitati ma l’evento ebbe una portata internazionale. Nei mesi successivi, tuttavia, la Gestapo arrestò quasi tutti i componenti della banda Baum, compresi Heinz e Marianne.
Heinz venne ucciso nell’agosto di quell’anno. Quando mesi dopo, a marzo appunto, capì che sarebbe toccato a lei, Marianne decise di scrivere l’ultima lettera ai suoceri. Sapeva, come si evince dal testo, che avrebbero avuto una migliore sorte dei suoi genitori, entrambi ebrei. Non si sbagliava: i suoi genitori morirono entrambi nei campi di sterminio; la stessa sorte la subì il suocero Alfons, mentre la madre di Heinz, l’unica non ebrea, sopravvisse alla guerra.



20 last posts shown.

1 085

subscribers
Channel statistics