LA STORIA DI OTA BENGA, IL "PIGMEO" ESPOSTO TRA LE SCIMMIE NELLO ZOO DI NEW YORK
Secondo le teorie razziali in voga alla fine dell’Ottocento i “pigmei”, nome con cui furono indicate diverse popolazioni indigene dell’Africa Equatoriale, erano “l’anello di congiunzione tra gli uomini e le scimmie”.
La bassa statura, i capelli crespi, il naso schiacciato, tratti somatici delle tribù Twa, Aka, Baka, Bambuti e Mbuti ( “sottogruppi” delle etnie agglomerate col termine pigmeo), furono sufficienti agli occhi dei colonizzatori per classificarli come subumani a cui riservare un trattamento a dir poco abominevole.
E proprio tra i colonizzatori va annoverato l’antagonista di questa nostra storia. Samuel P. Verner, presbitero originario del South Carolina che nel 1885, arrivò in Africa per esplorare, convertire ed arricchirsi. Dopo alcuni anni di osservazione dei “pigmei”, nel corso dei quali si appropriò di manufatti indigeni che rivendeva negli USA, si accordò con l’antropologo John McNee, per portarne 12 in America da esporre negli zoo umani di recente invenzione.
Fu così che tra gli altri Verner acquistò per una libbra di sale e un pezzo di stoffa Ota Benga, reso schiavo dalla milizia coloniale belga che aveva trucidato la sua famiglia.
In cambio dei “pigmei” il missionario ricevette cento dollari sonanti.
Ota Benga e gli altri vennero esposti per la prima volta a St. Louis dove furono oggetto di derisione da parte del pubblico e divennero protagonisti di ridicoli test scientifici che ne decretarono il presunto ritardo mentale. In seguito, anche a causa degli atti di insubordinazione del gruppo, vennero tutti rispediti in Africa.
Ota Benga però fu riportato presto da Verner negli Stati Uniti e ceduto allo zoo del Bronx di New York, dove venne collocato nella gabbia delle scimmie. Il 9 settembre 1906 il New York Times dedicò a questo “boscimano dai denti affilati” un articolo che portò ben 40000 persone a vedere quel ragazzo che condivideva la stessa casa di Dohong, celebre orango.
In quella condizione di prigionia forzata Ota Benga e Dohong sembravano trovare un po’ di serenità l’uno nell’altro: giocavano, si abbracciavano, forse si consolavano a vicenda. Nei mesi seguenti, mentre l’attenzione del pubblico scemava e la Chiesa Battista americana protestava contro il trattamento riservato al “pigmeo”, vi furono una serie di atti di insubordinazione di Ota Benga che portarono la direzione dello zoo a disfarsi di lui.
Affidato al reverendo Gordon fu “civilizzato suo malgrado”. Si trasferì nel seminario di Lynchburg, ricevette un’educazione religiosa, degli abiti occidentali, una protesi per i denti, e perfino un lavoro.
Ma tutto questo era solo una forzatura. Tormentato dal sogno irrealizzabile di tornare in Africa, depresso per la condizione in cui viveva il 20 marzo 1916 accese un falò, si denudò e comincio a ballare come fosse tra la sua gente. All’alba si sparò un colpo al cuore.
Finalmente era libero.
#razzismo #colonialismo
Secondo le teorie razziali in voga alla fine dell’Ottocento i “pigmei”, nome con cui furono indicate diverse popolazioni indigene dell’Africa Equatoriale, erano “l’anello di congiunzione tra gli uomini e le scimmie”.
La bassa statura, i capelli crespi, il naso schiacciato, tratti somatici delle tribù Twa, Aka, Baka, Bambuti e Mbuti ( “sottogruppi” delle etnie agglomerate col termine pigmeo), furono sufficienti agli occhi dei colonizzatori per classificarli come subumani a cui riservare un trattamento a dir poco abominevole.
E proprio tra i colonizzatori va annoverato l’antagonista di questa nostra storia. Samuel P. Verner, presbitero originario del South Carolina che nel 1885, arrivò in Africa per esplorare, convertire ed arricchirsi. Dopo alcuni anni di osservazione dei “pigmei”, nel corso dei quali si appropriò di manufatti indigeni che rivendeva negli USA, si accordò con l’antropologo John McNee, per portarne 12 in America da esporre negli zoo umani di recente invenzione.
Fu così che tra gli altri Verner acquistò per una libbra di sale e un pezzo di stoffa Ota Benga, reso schiavo dalla milizia coloniale belga che aveva trucidato la sua famiglia.
In cambio dei “pigmei” il missionario ricevette cento dollari sonanti.
Ota Benga e gli altri vennero esposti per la prima volta a St. Louis dove furono oggetto di derisione da parte del pubblico e divennero protagonisti di ridicoli test scientifici che ne decretarono il presunto ritardo mentale. In seguito, anche a causa degli atti di insubordinazione del gruppo, vennero tutti rispediti in Africa.
Ota Benga però fu riportato presto da Verner negli Stati Uniti e ceduto allo zoo del Bronx di New York, dove venne collocato nella gabbia delle scimmie. Il 9 settembre 1906 il New York Times dedicò a questo “boscimano dai denti affilati” un articolo che portò ben 40000 persone a vedere quel ragazzo che condivideva la stessa casa di Dohong, celebre orango.
In quella condizione di prigionia forzata Ota Benga e Dohong sembravano trovare un po’ di serenità l’uno nell’altro: giocavano, si abbracciavano, forse si consolavano a vicenda. Nei mesi seguenti, mentre l’attenzione del pubblico scemava e la Chiesa Battista americana protestava contro il trattamento riservato al “pigmeo”, vi furono una serie di atti di insubordinazione di Ota Benga che portarono la direzione dello zoo a disfarsi di lui.
Affidato al reverendo Gordon fu “civilizzato suo malgrado”. Si trasferì nel seminario di Lynchburg, ricevette un’educazione religiosa, degli abiti occidentali, una protesi per i denti, e perfino un lavoro.
Ma tutto questo era solo una forzatura. Tormentato dal sogno irrealizzabile di tornare in Africa, depresso per la condizione in cui viveva il 20 marzo 1916 accese un falò, si denudò e comincio a ballare come fosse tra la sua gente. All’alba si sparò un colpo al cuore.
Finalmente era libero.
#razzismo #colonialismo